mercoledì 11 aprile 2012

Birmania: che cosa nasconde la vittoria di Aung San Suu Kyi

di Sergio Romano

Abbiamo salutato con soddisfazione la vittoria elettorale di Aung San Suu Kyi nelle elezioni per il rinnovo, molto limitato e parziale (meno del 10 per cento), del parlamento di Myanmar. È una donna apparentemente fragile ma straordinariamente tenace. Ha speso la sua vita per il ritorno del paese alla democrazia, ha saputo conciliare fermezza e prudenza, ha rifiutato l’ipotesi dell’opposizione violenta, ha ricevuto un premio Nobel per la pace che non ha mai perduto, a differenza di quanto è accaduto per altri premiati, il suo smalto originale. Ma se vogliamo davvero aiutarla in questo periodo cruciale della sua battaglia politica, dovremmo chiederci piuttosto perché i militari abbiano deciso, 18 mesi fa, di sostituire la loro giunta con un governo civile, di liberare Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari, di autorizzare libere elezioni per 45 seggi parlamentari e di consentire l’esistenza in parlamento di una piccola forza d’opposizione composta principalmente dai deputati della Lega nazionale per la democrazia. Possiamo già parlare di transizione a un regime democratico con il consenso delle forze armate, come accadde in Cile alla fine dell’epoca di Augusto Pinochet?

La speranza non sembra realistica. È più probabile che i militari sperino di uscire dallo stato di semiisolamento internazionale in cui il paese ha vissuto dall’inizio degli anni Novanta. Le sanzioni incidono modestamente sul commercio birmano (il 95 per cento dell’interscambio è con i paesi dell’Asia), ma il paese ha giganteschi giacimenti di gas che potrà sfruttare per la crescita dell’economia nazionale soltanto con la collaborazione delle grandi società occidentali. L’obiettivo dei militari probabilmente è la trasformazione di Myanmar in una nuova tigre asiatica. Il modello, con tutte le varianti del caso, è quello cinese: alla società civile una maggiore libertà di intraprendere e di arricchirsi, al potere centrale il controllo della cosa pubblica e l’ultima voce in capitolo.

Sono rari, del resto, i paesi emergenti in cui la casta militare non abbia un ruolo determinante. Quella del Pakistan è responsabile dell’ambiguità con cui il governo di Islamabad si è barcamenato fra amicizie talebane e lealtà verso l’alleato americano. Quella cinese continua a gestire una parte dell’economia nazionale ed è un pilastro del potere. Quella thailandese ha avuto una parte importante in tutte le vicende politiche degli ultimi anni. Quella nordcoreana è l’anima nera del regime. La situazione non è troppo diversa nei paesi che si affacciano sulla costa meridionale del Mediterraneo. Fino a qualche anno fa i militari avevano il diritto d’intervenire discrezionalmente nella politica turca. Oggi sono ancora potenti in Algeria, in Egitto, in Siria.

In molti di questi paesi il nodo da sciogliere è quello della difficile convivenza fra una politica economica almeno parzialmente liberale e un regime autoritario o semiautoritario. Là dove esiste libertà d’impresa la società finisce per chiedere maggiori libertà civili. In Egitto la Fratellanza musulmana ha deciso di sfidare il potere del maresciallo Hussein Tantawi, presidente del Consiglio supremo delle forze armate, presentando il proprio candidato alle prossime elezioni presidenziali. Che cosa accadrà in Myanmar quando l’opposizione non si accontenterà di una modesta rappresentanza in parlamento e chiederà che il paese possa liberamente esprimersi sul futuro istituzionale del paese?

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